Pubblichiamo, su gentile concessione dell’autore Sergio Bologna, un estratto dal libro Ritorno a Trieste (Asterios, 2019).
Trieste era ancora un villaggio sconosciuto di pescatori quando Ragusa era già un nodo importante di smistamento dei traffici mediterranei. Ce lo ha ricordato la mostra organizzata a Matera sul Rinascimento nell’Italia meridionale e visitabile da maggio a settembre del 2019. Nella prima sala, quella di carattere introduttivo alla mostra, era infatti esposta in una vetrina un’antica edizione del “Libro de l’arte de la mercatura” di Benedetto Cotrugli. Figlio di una famiglia proveniente da Cattaro, nato suppergiù tra il 1410 e il 1416, mandato a studiare inizialmente a Bologna giurisprudenza, era stato richiamato in patria per prendere in mano o partecipare coi fratelli all’impresa mercantile di famiglia. Per Ragusa passavano i metalli delle miniere di Bosnia e gli schiavi catturati nella stessa regione tra i poveri Bogomili, considerati eretici e quindi uomini di razza inferiore, passavano il sale, le spezie, la lana e i panni. Il nostro Benedetto lo troviamo a Napoli, alla corte degli Aragonesi, a Venezia, ma anche a Barcellona o Firenze, dove deve aver avuto contatti con gli umanisti. Uomo d’affari, diplomatico, ma anche uomo di cultura che si decide a scrivere in volgare quello che può essere considerato il primo trattato su una deontologia professionale. Nel 2016 l’Università Ca’ Foscari di Venezia ha deciso, per celebrare i 150 anni della sua fondazione, di ripubblicare quest’opera in un’edizione critica (si può scaricare il pdf da Internet e constatare l’egregio lavoro filologico fatto da Vera Ribaudo sulle copie più antiche, essendosi perso l’originale).
Le giovani triestine ed i giovani triestini, nel costruire la propria identità culturale, non dovrebbero mai dimenticare che la nostra è una storia recente, molto recente. Se è vero che in epoca romana Tergeste era qualcosa di più che un semplice villaggio di pescatori, è altrettanto vero che il sistema di valori su cui poggia la nostra civiltà è debitore soprattutto del Rinascimento, dell’Illuminismo e delle rivoluzioni industriali e tecnologiche dell’Ottocento e del Novecento. La Ragusa del Quattrocento, soggetta alla corona ungherese ma dotata di amplissima autonomia, era una città dove si respirava la stessa aria che si respirava nelle Fiandre, a Parigi, a Napoli, in Spagna, a Venezia. La finanza italiana dava lezioni a tutti. Ricordo una bellissima mostra, alcuni anni fa, a Bruges, sulla finanza medicea e sulla pratiche dei banchi genovesi, lucchesi, veneziani. E ricordo, per contrasto, un’altra mostra, agli inizi degli Anni 90, ad Amburgo, sulla Lega anseatica e sulle pratiche dei mercanti della Hansa. Che abisso tra il baratto e lo scambio monetario! Quando Cotrugli, che si firma de Cotrullis, all’inizio del suo Trattato, dice che non si può parlare di mercatura senza l’esistenza della “pecunia” (“mezo universale che in ogni tempo e in ogni loco valesse…et però trovarono questo mezo de la pecunia, dal quale come da fonte vivo derivò el principio de la mercatura”), mi ricorda Marx che parla del mercato mondiale e di come esso sia stato reso possibile solo dall’esistenza di una moneta mondiale. Il denaro però, secondo Cotrugli, è essenzialmente il medium degli scambi, è ancora lontana l’idea dell’accumulazione. Considerato il primo ad aver esposto i principi della contabilità commerciale (la partita doppia), le sue pagine più interessanti, secondo me, riguardano non tanto gli insegnamenti di tecnica ma i precetti relativi a pratiche e comportamenti che presuppongono sensibilità e accortezza, fiuto e astuzia, dunque difficilmente formalizzabili in schemi rigidi ma propri delle doti naturali del singolo individuo. Tanto per fare un esempio, i paragrafi relativi alla vendita a termine o al modo di riscuotere (scodere) uncredito o di contrarre un debito, per non parlare di quelli relativi ad operazioni che solo una lunga esperienza consentivano di condurre con successo, come i precetti relativi ai cambi. Questa lucidità, questa chiarezza, non potevano che derivare da una cultura, da un’esperienza cosmopolita, da una familiarità con i porti mediterranei, che Cotrugli deve aver frequentato sia come mercante che come armatore, se, dopo il Trattato sull’arte della mercatura, ne scrisse anche un altro: “De navigatione”, sempre in volgare, la cui edizione critica Piero Falchetta ha curato per la rivista “Studi veneziani”. Lo spazio mediterraneo era il suo universo, era cittadino di quel cosmo.
E’ lo stesso spazio al quale io mi sento legato molto di più che a qualsiasi altra nozione d’identità territoriale, tanto che se dovessi indicare un libro-chiave su cui costruire un processo formativo per dei giovani triestini non esiterei a scegliere “Breviario mediterraneo” di Predrag Matvejević, nell’edizione che Claudio Magris ha, con tanta competenza e partecipazione, prefato. Cotrugli e Matvejević. Li metto insieme, questo dalmata di origini serbe del Quattrocento e questo bosniaco dei giorni nostri, e li associo con il paesaggio delle Kornati, con il ponte di Mostar, che Giairo Daghini ed io, reduci dal maggio francese, dagli scontri nel Quartiere Latino e dai cortei interminabili sui boulevards, scritto il nostro saggio per i “Quaderni Piacentini” – appena tradotto in francese e spagnolo (toh, un passato che ritorna!) – abbiamo attraversato nel 1968. Nasce a Odessa il padre di Matvejević, città che ha avuto intensi legami con Trieste, commerciali e culturali, e ci ricorda che lo spazio mediterraneo comprendeva il Mar Nero. Uomini che hanno assorbito la cultura italiana integralmente e possono dirsi anche figli di quella.